
Capitolo trend: il potere calamitante dell’uomo hipster sulla figa
Le mode, come le minne, gli ziti e i sogni nel cassetto imbrogliati alle mutande, sono vittime condannate al rinnovamento. Accertato questo assunto leggendario, calati nella fredda dimensione dell’analisi anaffettiva, è con il dovuto distacco che si deve guardare alla tendenza in voga.
Dopo la perdita dei jeans a zampa d’elefante, che inneggiavano al suicidio di chi li portava insinuandosi sotto le suole delle scarpe, siamo riuscite a superare il trauma di non sfoggiarli più. Abbiamo così ammansito il nostro sentimento puramente masochistico, quello che ci faceva sentire tronfie in un capo d’abbigliamento con la capacità di trasformarci in Magalli, e abbiamo dominato la voragine post-rinuncia. Un po’ come quando ci si ostinava ad amare il bonazzo della scuola che, quando ci passava vicino, trasformava la nostra voce puberale nello starnazzo del brutto anatroccolo.
Ma poi siamo cresciute, siore, mica è mai accaduto di pretendere di indossare quelle bestie di Satana chiamate leggins solo perché l’etichetta “comodità” era talmente ammaliante da ottenebrare il rischio di sparare in faccia al postino la nostra vagina, in tutta la sua inconfondibile forma. No perché, nel caso non si fosse ancora capito, il mio zoccolo di cammello differisce da quello di Gertrude-passione leggins total white, non sia mai si avanzino dubbi a riguardo.
E questa ingenuità/ propensione per l’orrido, nel rispetto di una riserva accumulata di porcherie dal gusto assai discutibile, si riversa categoricamente sul maschio. Sul suo stile. Sul suo modo di conciarsi.
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Perché sì, ammettiamolo colleghe, se il nostro curriculum pullula o meno di obbrobri dall’intenso riverbero anche quello dei nostri amici uomini non scherza.
Eppure noi siamo sempre lì, pronte ad entusiasmarci e a legittimare i loro look. Se negli anni ’90 ci si arrapava per lo sbarbatello efebico col capello liscio Pantene, ora a malapena teniamo a bada l’ormone impazzito per una barba folta che per hashtag fa Allah Akbar.
E’ così, osservazioni cumulative lo hanno dimostrato: l’uomo hipster, sfoggiante un arsenale di camicie a quadri, una compilation di addominali e un paio di tatuaggi, fa sciogliere la femmina come una sottiletta kraft su un toast riscaldato.
E’ statisticamente provato che se si chiudono 5 donne in una stanza con un elemento analogo, a scopo puramente scientifico, tempo dieci minuti e le scialuppe di salvataggio potrebbero essere l’unica speranza di sopravvivenza.
E questo il maschio lo sa. Lo avverte. Per questo fa razzie di tutte le tovaglie da pic-nic per risparmiare sul vestiario, per questo sopporta di strizzare le palle in jeans attillatissimi che terminano in immancabili risvoltini rimembranti la pigiatura dell’uva stile “fiori e fantasia”.
Allora vai di uniformità totalizzante, manco ‘na sbavatura di diversità, perché se la possibilità di trombare così aggiustati è del 99 %, non si rischia di rientrare in quell’infinitesimale percentuale che va in bianco per aver osato far respirare Ernesto ed Evaristo in un outfit un attimino più comodo.
Ebbene, non esiste una spiegazione razionale all’attizzamento. Non si sa perché il concetto di virilità suprema sia accostato all’immagine di un boscaiolo che poi, all’atto pratico, non ti sa aprire il barattolo di cetriolini.
Quanto durerà questa intensa predilezione? Non è pervenuto. Ma un appello, però, lo voglio fare: ragazze, quando pensiamo di farlo avvicinare alla cucina, inebriate da cotanta opulenza testosteronica, vogliamo valutare le conseguenze? Un pelo nel brodo vegetale è meno sexy delle ballerine che i “pene dotati” ci criticano dall’alba dei tempi. Pensiamoci.
Alessia


















































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