
Italiani, piccola gente: un borghese piccolo piccolo
Fenomenologia dell’italiano medio? Era dal dopoguerra che registi e sceneggiatori provavano a fare il ritratto dell’italiano medio e spesso, nelle loro opere l’italiano, il medio lo mostrava.
Con simpatia, per carità, noi siamo fatti così, ci piace trasgredire ma siamo “taaanto” carucci.
E mi sembra di vederli, quei primi spettatori che andarono al cinema – qualcuno, come mia nonna, avrà avuto ancora l’abitudine di chiamarlo cinematografo – nel lontano 1977, ad assistere alla proiezione di questo film: Monicelli alla regia e Sordi come protagonista dovettero sembrare loro l’equivalente di una polizza su due ore di risate.
I precedenti, del resto, sia da parte del regista che da quella dell’Albertone nazionale, giocavano a favore delle due ore di ilare intrattenimento.
E invece no, manco per il cazzo! Questa volta il ritratto dell’italiano medio, un po’ furbetto e figlio di buona donna ma simpatico, quello che tanto piaceva al suo omologo della realtà, fedele garante dei successi al botteghino del filone della commedia italiana, qui lascia il posto a un cazzotto in bocca in stile “vediamo se ridi mo”.
Eppure, a pensarci, i vizi iniziali del protagonista Vivaldi-Sordi (già, l’accostamento compositore-non udenti è singolare) non è che siano diversi da quelli che il regista aveva raccontato molte altre volte ma stavolta egli sembra voler mettere in chiaro che – nel ’77- sia forse giunta l’ora di affrancarsi da quel cliché e che dietro la stessa natura, dietro la solita “innocente” allergia all’osservanza delle regole, si nasconda molto di più.
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Quando un tranquillo impiegatuccio ministeriale prossimo al pensionamento, a causa della tragica fatalità di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, viene privato per mano di un delinquente senza scrupoli dell’unica ragione di vita – un figlio un po’ tonto ma amatissimo – e della moglie che si ammala irrimediabilmente per il dolore di questa perdita, egli si trasforma nel più feroce dei torturatori e in assassino.
Il pensionato che guida col cappello diviene bestia feroce e assetata di vendetta.
Qui, al contrario di ciò che era accaduto ad altri personaggi di Monicelli in precedenza, il protagonista non ha sussulti di orgoglio virtuoso, come accade ne “La grande guerra”.
Vivaldi si abbandona al più bieco istinto e si erge a persecutore, giudice e giustiziere, senza il minimo tentennamento, rammaricandosi perfino della morte che pone inaspettatamente fine anzitempo alle sofferenze della sua vittima.
Monicelli ci sbatte davanti agli occhi una realtà spesso ignorata, sulla quale solo a tratti la cronaca ci mette in guardia e cioè che qualche volta i mostri – quelli veri – si nascondono dietro l’aspetto più banale e innocuo. Sottotraccia per tutto il film, poi, c’è la scarsa o nulla considerazione per le istituzioni, da buggerare prima, truccando la partecipazione a un concorso del figlio e da snobbare dopo, non affidando alla Giustizia l’assassino del figlio, dissimulandone il riconoscimento in un confronto all’americana.
Non è forse lo stesso sentimento che anima il dibattito odierno sulla possibilità di difendere da sé le mura domestiche e quindi farci giustizia da noi?
Siamo passati dal telefono a disco agli smartphone ma siamo gli stessi piccoli borghesi di 40 anni fa e ho il sospetto che sia anche questo il motivo della scomparsa dei cric dalle auto moderne.
Consiglio a chi non lo avesse fatto di guardare questo capolavoro per poi cominciare ad avere rispetto per gli anzianotti che guidano col cappello – coloro i quali hanno orgasmi multipli , per intenderci, nello stare giornate intere ad osservare cantieri – sia perché essi potrebbero farvi un culo così anche se siete giovani e forti, sia perché vi assicuro che passare dalla musica progressive alle lenti progressive è un attimo, l’importante è non trasformarsi in bestie nel frattempo.
Paride Ficiente


















































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