
Joker
l’amara risata degli ultimi.
Disturbante, bizzarro, oscuro.
In altre parole sbalorditivo.
L’opera di Todd Phillips – al cinema in questi giorni nel Belpaese- campione d’incassi al botteghino con un debutto mondiale di 234 milioni di dollari e vincitore alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è il colosso hollywoodiano che ci ha tenuti incollati allo schermo nell’ultimo weekend.
Il regista lancia il film evento dell’anno e lo fa decisamente col botto.
Egli costruisce sapientemente una pellicola basata sulla versione inedita dell’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics e di questa trasposizione ne celebra i tratti caricaturali attraverso un’umanizzazione estrema del protagonista.
Ebbene sì.
Perché il film altro non è che la totale consegna – resa in termini spiccatamente emotivi- del suo principale interprete alla sequenza narrativa della trama.
Un monumentale Joaquin Phoenix – meritevole dell’ambita statuetta- che giganteggia per due ore in un’interpretazione assolutamente indimenticabile.
Come la sua risata.
Quella risata folle , espressiva, grottesca che gli appartiene in quanto persona malata di mente; quel grido di dolore che è quasi un monito , quell’improvviso e incontrollabile attacco intriso di sofferenza.
In una Gotham City del 1981 plumbea e violenta , Arthur Fleck – il protagonista appunto- è un comico fallito che durante il giorno si traveste da clown e che è convinto che la sua missione nella vita sia far divertire gli altri.
Un individuo profondamente alienato che la società schernisce.
Un uomo tragicamente solo che vive con la madre anziana e necessita – in fin dei conti- di nient’altro che comprensione, amore.
Un essere a cui però, come amaro contrappasso, viene riservata esclusivamente una beffarda risposta di disprezzo da parte della società- una società ascrivibile all’egoismo dell’odierna comunità occidentale-alla quale – in un escalation di profonde frustrazioni personali – egli reagisce diventando uno spregiudicato killer.
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Momento esatto in cui viene notato dal mondo, diventando allegoria di tutti gli emarginati.
Joker è una denuncia sociale di grande spessore artistico in cui è evidente un senso di rivincita che catapulta la sempreverde visione manichea del male e del bene: i cattivi- nel ribaltamento delle parti- sono i buoni.
Arthur dice le seguenti , illuminanti parole: “io pensavo che la mia vita fosse una tragedia, invece è una cazzo di commedia”.
Una parabola che strizza l’occhio a “Taxi Driver” di Scorsese – non a caso è presente un altro mostro sacro del cinema quale De Niro in un ruolo diametralmente opposto- e che sulle note di “That’s Life” di Sinatra – il regista- opera la trasfigurazione completa di Fleck.
Un riscatto del “villain” che si presenta per molti versi, come qualcuno con cui empatizzare.
Un “ J’accuse” immaginifico operato attraverso un racconto che ci inchioda inevitabilmente a una riflessione profonda incentrata sulla deriva umana propria dei tempi contemporanei , in cui non è esercizio semplicemente retorico invocare una ricollocazione di quegli ideali del passato attraverso un urlo angoscioso.
Phillips, affiancato da una una fotografia eccellente, cesella nel corpo scheletrico di Phoenix- che per l’occasione ha perso più di venti chili- il rilievo della follia .Lo fa attraverso una colonna sonora, firmata Guddnadottir, – compositrice islandese – che unisce voce e violoncello in una musica atonale scandente tempo e ritmo alle sequenze , riportando fedelmente il senso di angoscia che pervade l’opera e ci resta attaccato come un francobollo anche dopo il tempo che la contiene.
Lo fa senza prese di posizioni moralistiche.
Ce la butta in faccia semplicemente.
E fa male.
Perché in Joker non è presente Batman e quello che lui rappresenta.
Joker è il sorriso amaro di chi si accorge di aver perso, dal pulpito della proprio orto rigoglioso.
Valentina


















































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