
L‘errata convinzione sociale di essere tutti oggetto d’invidia.
E’ uno dei peccati capitali – davvero-la locuzione “essere verdi dall’invidia” è associabile all’eccesso di rabbia che è trasfigurata nella secrezione di bile, notoriamente di questo colore; tutta la storia letteraria ci parla di invidie funeste: da quella di Adamo nei confronti del suo Creatore a Iago – perfettamente delineato da Shakespeare- per continuare con Uriah Heep di Dickens e arrivare all’emblematico Javert de “I Miserabili” di Victor Hugo quintali d’inchiostro sono stati spesi.
Miriadi di frasi con l’intento di dipanare le sfumature semantiche di questo termine simbolo della caducità – in perfetta dicotomia con la sua accezione divina – umana sono accessibili all’approfondimento.
Ma andiamo per gradi, etimologicamente la parola viene dal latino “invidere” cioè guardare di traverso; a livello psicologico essa è un’emozione sociale generalmente stigmatizzata – aggiungo io della quale più o meno tutti siamo stati almeno una volta colpevoli- per la quale si prova astio verso colui il quale è possidente di una virtù.
Sarà che la sottoscritta è una profonda peccatrice tendente ad un altro vizio (quello dell’ira) , ma veramente signori, ai tempi di Google il ricorrere all’invidia come causa di tutti i mali mi sembra un esercizio di delirio di massa.
Mi spiego meglio.
Se uno dovesse ipoteticamente prestare attenzione ai social- quell’impietoso specchio della società mirabilmente descritto da Umberto Eco come il luogo dello sdoganamento virtuale degli imbecilli da bar- e il buongiornissimooooooooo caffèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèdegli entusiasti di mezza età docet- si accorgerebbe, in maniera lapalissiana che la gran parte della massa – targettizzata appunto sull’uomo medio – pensa di essere invidiata.
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E’ così: non ci sono cazzi.
A un scroll della Home page immediato abbiamo un quadretto apparentemente preoccupante che diventa però – per esacerbazione dell’ego – ilare.
E qui ci sarebbero da scrivere miriadi di tomi che – al confronto- l’Ulisse di Joyce sarebbe un cazzo di Bignami.
E’ tutto un tripudio di locuzioni, aforismi, citazioni intellettuali che prendono forma attraverso ciò che può essere definito il serial killer dell’eros: il link.
Una moltitudine di grafiche imbarazzanti che vanno dall’immagine con felino simboleggiante l’emancipazione femminile a quella pucciosa con cuoricini barra stelline fino ad arrivare allo stile “Gomorra” , le quali declinano il medesimo sostrato: l’individuazione dell’invidia altrui.
Come se tutti il giorno avessero il tempo di sospirare con malanimo gli eventuali successi di altre persone, come se – inoltre- la priorità nella vita fosse quella di farsi il sangue amaro per degli sconosciuti.
Questa è la credenza popolare: le cose mi vanno male perché sono invidiato/a.
Si va dalla citazione filosofica di Nietszche che asserisce quanto segue : “Quanto più in alto ci innalziamo tanto più piccoli sembriamo a coloro che non possono volare”, ignorando l’opera dell’autore ovviamente, al più lascivo Oscar Wilde che sprezzante afferma : “l’invidia è quel sentimento che nasce nell’istante in cui ci si assume la consapevolezza di essere dei falliti” al più popolare “si muore più d’invidia che d’infarto” fino ad arrivare all’ intellettualismo raffinato di Honorè De Balzac che chiosa :”l’invidia è una confessione d’inferiorità.
Ma chi cazzo ti caga? Chi?
Signori, vi voglio dire una cosa: se fate parte della pletora di esaltati emozionalmente irraggiungibili che si fanno pippe su ciò di cui sopra sappiate che a meno che voi non siate dei redivivi Marlon Brando con il Q.I di Leonardo Da Vinci oppure delle fighe stile Irina Shayk con il cervello di Rita Levi Montalcini o ancora dei novelli Maradona o Federer o Lou Gehrig o Kobe Bryant , a meno che voi non abbiate il conto corrente di Bill Gates o l’ugola di Freddy Mercury, state tranquilli che non vi si incula nessuno.
Valentina
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