L’ovvietà della grandezza
Essere la regina non significa solo cantare e diventare una diva non significa solo cantare. Ha molto a che fare con l’essere al servizio alle persone. E con i tuoi contributi sociali alla tua comunità e anche i tuoi contributi civici.
Parlare oggi – all’interno della rubrica musicale- di Aretha Franklin potrebbe risultare stucchevole e banale.
Ma signori, quando muore una delle icone mondiali della musica, si è costretti a ricorrere alla banalità.
Perché non si può fare altro che allinearsi a tutte le celebrazioni che giocano la carta del ricordo come ciliegina sulla torta della malinconia.
Perché ci ha lasciati inesorabilmente la regina del soul. Ma chi è già leggenda in vita, riecheggerà sicuramente nell’eternità e resterà immortale nella bellezza del suo lascito.
75 milioni di dischi venduti a livello mondiale , 18 Grammy Awards consecutivi , primo posto nella classifica dei 100 più grandi cantanti di tutti i tempi stilata da Rolling Stones ma soprattutto prima donna ad entrare nella Rock and Roll’ Hall of fame, il museo dove risiede il Gotha del pentagramma.
Con Aretha Franklin va via – cronologicamente – una delle ultime icone della Black Music, di quell’espressione che racconta una storia. Una storia di catene, di dolore, di sfruttamento. Quel blues che nasce nei campi di cotone – come una sorta di lamento alle intemperie esistenziali e conforto – da parte
degli schiavi, prosegue nelle polverose baracche dell’America rurale e ha il suo picco con i posti riservati sugli autobus. Quella stessa musica che incarna il sentimento di protesta all’apartheid, politica che la Franklin ha esperito fino all’ultimo poro della sua pelle.
Perfetta incarnazione del genio appartenente a chi è stato protagonista di un’infanzia difficile che incanala tutto il suo percorso negativo trasfigurandolo attraverso il talento. “The Queen” è tutto questo e anche altro. Soprano dotata di un’estensione di tre ottave in piena voce, la regina “è” capace di bassi pregni e carichi, di quelli che ti fanno venire la pelle d’oca. Le sue esibizioni non sono mai studiate a tavolino. Quegli acuti improvvisi in un momento apparentemente inopportuno in cui esplode la sua furia carica di anima, di personalità, di rabbia sono la prova dell’esistenza del divino.
Ricordo benissimo quando sostituì Pavarotti nel 1998 cantando nessun dorma e personalizzando il brano attraverso la sua infinita cifra stilistica. Ne uscì fuori un prodotto in cui la lirica non c’entrava nulla. Ne uscì fuori un testo in cui sgorgava infinita passione, frustrazione e rinascita. Avevo 19 anni. Rimasi incollata al televisore anche dopo in uno stato catatonico.
La voce di questa splendida interprete è capace di farti sgorgare lacrime. Ti colpisce inesorabilmente in quella parte di te che resta apparentemente celata. Perché siamo abituati a trattenere. Tutto. Sentimenti, pianti, gesti. Ma quando veniamo toccati al centro non possiamo fare a meno di esplodere.
E signori, lei tocca il centro di noi stessi.
Lo dilata. Lo percuote. Lo rende gigantesco.
Non è il caso di dire RIP.
Una con la tua voce non ha niente a che fare con la pace.
Una con la tua voce farà sempre uscire fuori il diavolo che abbiamo dentro.
Tutti.
Arrivederci Aretha.
Sicuramente, avremo il “Respect” che ti meriti.
Valentina
Valentì sei meravigliosa….le hai fatto un ritratto di una bellezza degno della sua grandezza. Solo tu.